Se Pio XI avesse fatto in tempo a pubblicare l'«enciclica nascosta»...
Se Pio XI avesse fatto in tempo a pubblicare l’«enciclica nascosta», il fascismo avrebbe subito una battuta d’arresto alla fine degli anni Trenta?
Pio XI è passato alla Storia come il papa che intrattenne ottimi rapporti con il fascismo e per certi versi fu realmente così, in particolare durante il primo decennio del governo Mussolini. Dal canto suo, il Duce viene ricordato come un fervente cattolico, e questa volta no, non lo era realmente. Diversamente da come si è soliti credere, Mussolini non fu mai cattolico: profondamente anticlericale in gioventù come si evince dal programma di San Sepolcro (1919), semplicemente si rese conto del decisivo ed esclusivo potere persuasivo della Chiesa sulla società del suo tempo. Consapevole che senza l’accordo con il Vaticano non avrebbe mai conquistato il favore del popolo italiano, Mussolini si preoccupò di ottenere il benestare del papa attraverso una serie di concessioni: riconobbe l’Università Cattolica del Sacro Cuore al pari delle università statali, assegnò un importante ruolo alla religione cattolica nelle scuole con la riforma Gentile, salvò il Banco di Roma a un passo dal fallimento.
Papa Ratti era un conservatore, profondamente avverso alla modernità e al progresso, e inizialmente vide nel fascismo l’opportunità di riportare la società ai valori tradizionali, arrivando a definire Mussolini l’«uomo della Provvidenza». È ben noto che l’alleanza tra Stato e Chiesa si suggellò nel 1929 con i Patti Lateranensi, trattato con cui i due stati si riconobbero reciprocamente e concordato con cui vennero riconosciuti svariati benefici ai cattolici. Sancire questo «ufficiale buon rapporto» fu determinante nel garantire il consenso degli italiani al fascismo. L’idillio fu breve e presto tra Pio XI e un regime tanto ingombrante si alimentarono i primi contrasti. Già nel 1931 il papa promulgò l’enciclica Non abbiamo bisogno, apertamente ostile alle ingerenze del governo negli affari della Chiesa e in particolare nell’organizzazione delle associazioni cattoliche, le uniche a non essere state sciolte con i provvedimenti del 1926. Ma, nonostante il diverbio, il papa finì presto per acconsentire alle richieste del Duce.
La rottura – ideologica, si intende – tra Chiesa e Stato si consumò con l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista. Il Papa era in pessimi rapporti con il Fuhrer (a differenza di buona parte della curia, accecata dalla paura del comunismo) e aveva tentato di imbrigliare anche lui con un concordato, strappando la sua firma nel 1934. Peccato che – di fatto – quell’accordo fosse privo di valore, dato che la maggior parte della popolazione tedesca era protestante, i cattolici rappresentavano una minoranza circoscritta in Baviera e, dunque, l’avallo della Chiesa era poco più che inutile per rinforzare il consenso popolare in Germania.
Il papa era molto preoccupato dalla nascente «religione laica» nazista che si stava diffondendo nel cuore dell’Europa, fatta di riti, simbologie, parate e deificazioni del Fuhrer in aperta rottura con la religiosità cristiana. E poi la Chiesa, universale per definizione, dissentiva con la Germania sul tema razziale e dal 1935 – anno di emanazione delle Leggi di Norimberga – la rivista Civiltà cattolica criticò duramente il governo tedesco in merito alla questione ebraica.
Nel 1937 il papa redasse – per la prima e unica volta nella Storia della Chiesa – un’enciclica in lingua tedesca, la Mit brennender Sorge, tradotto «con ansia bruciante». Rivolta ai vescovi tedeschi, la lettera criticava duramente il nazionalsocialismo come dottrina anticristiana, scagliandosi in particolare contro il culto idolatrico e perverso della razza e dello stato; il documento venne letto nelle parrocchie la domenica delle Palme e conservato segretamente nei tabernacoli. La reazione del regime fu severa: il Fuhrer ne ordinò personalmente il sequestro e vietò la diffusione del contenuto; gli esponenti del clero coinvolti furono processati con false accuse, talvolta arrestati o condotti nei campi di concentramento; i fedeli e le loro attività o associazioni furono sottoposti a pesanti persecuzioni.
L’anno seguente, l’emanazione delle leggi razziali in Italia aveva disgustato il papa: «Mi vergogno di essere italiano. Lo dica pure a Mussolini!» si era sfogato con il padre gesuita Tacchi-Venturi «Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma mi preme di più la mia coscienza». Qualche mese dopo Pio XI aveva commissionato la stesura di un’enciclica di ferma condanna dell’antisemitismo e più in generale dei valori dei regimi nazista e fascista. È difficile immaginare cosa sarebbe accaduto se il documento fosse stato reso pubblico all’epoca, ma una cosa è certa: avrebbe rappresentato una critica severa e non troppo velata al regime di Mussolini – che tanto aveva goduto dell’approvazione della Santa Sede finora – influenzando in modo importante l’opinione pubblica del paese.
Il Santo Padre aveva programmato di leggere il documento all’assemblea dei vescovi italiani riuniti per la decennale della Conciliazione, l’11 febbraio 1939, ma morì di infarto alla vigilia di quel giorno. Il suo successore, Pio XII, scelse di non pubblicare e negare la stessa esistenza dell’enciclica, che rimase nascosta tra gli archivi segreti del Vaticano e per questo è stata soprannominata l’«enciclica scomparsa»; solo verso la metà degli anni Novanta la bozza del documento sarebbe stata pubblicata per la prima volta in Francia, suscitando l’interesse degli studi studiosi e riaprendo parecchi interrogativi sul rapporto di Pio XI con il regime.