Il maresciallo di Napoleone che ci vedeva doppio (o forse no)
Il 25 settembre 1805, la giovane Grande Armée aveva attraversato il Reno tra Mannheim e Strasburgo diretta verso il Danubio. Nel giro di poco più di un anno aveva ridisegnato le carte d’Europa, tracciando il nuovo confine orientale di Francia a oltre cinquecentosessanta chilometri dal precedente. Alla testa di quattro corpi d’armata, Napoleone aveva ammansito il governo austriaco, sbaragliato la potenza militare della Santa Russia e, ora, si accingeva a distruggere in un sol giorno di battaglia la leggenda dell’invincibilità prussiana.
All’alba del 14 ottobre 1806, una coltre di nebbia avvolgeva Jena. Ricordava quella che quasi un anno prima aveva offuscato il campo di battaglia di Austerlitz, e sembrava presagire l’esito del nuovo scontro. Dalla «battaglia dei tre imperatori» Napoleone era uscito vincente, e come era accaduto ad Austria e Russia, la Prussia di Federico Guglielmo III sarebbe stata annientata. Alle sei del mattino gli eserciti rivali avevano iniziato a darsi battaglia sulla piana di Jena; alle quindici, la Francia assaporava il trionfo. All’umiliante ritirata prussiana era seguito il feroce inseguimento dei vincitori, che si era arrestato solo con il precoce sopraggiungere della sera: l’autunno aveva accorciato la giornata e protetto i sopravvissuti.
Di ritorno dal campo di battaglia, dove si era trattenuto fino a tardi per coordinare il soccorso dei feriti, Napoleone si era diretto al nuovo quartier generale allestito in una locanda della città, adornata per l’occasione con trenta vessilli dei nemici sconfitti. Il suo arrivo aveva dato il via ai festeggiamenti. Il compiacimento per la vittoria mascherava l’ovvia stanchezza dell’imperatore. Le Istruzioni segrete di Federico Il Grande erano senza dubbio in cima alla lista delle opere che più aveva apprezzato nei suoi studi di arte bellica; e ora, non senza una certa soddisfazione, realizzava di averne appena sconfitto gli eredi. Mai avrebbe immaginato le notizie che di lì a poco gli sarebbero state riferite.
Frettolosamente il capitano Tobriant lo aveva raggiunto per importanti aggiornamenti: a una quindicina di chilometri da Jena, presso Auerstädt, il comandante del III Corpo d’Armata della Grande Armée Davout si era battuto e aveva annientato il nucleo principale dell’esercito di Federico Guglielmo III. Che razza di comunicazione era mai questa? Certo di essere l’artefice della sconfitta prussiana, Napoleone era trasalito. «Il tuo maresciallo deve vederci doppio» aveva replicato irritato, convinto di aver personalmente guidato il corpo d’armata responsabile della vittoria. E invece era andata proprio così, e avrebbe presto dovuto prenderne atto: era stato Davout, e non lui, a guidare lo scontro decisivo contro l’esercito di Prussia.
Ad Auerstädt, il suo subalterno alla testa di soli ventiseimila uomini aveva annientato le corpose truppe condotte dal duca di Brunswick. Quanto a lui, l’imperatore, a capo di ben novantaseimila soldati, a Jena non aveva che intrattenuto il fianco dell’esercito nemico. In fondo per Napoleone non era una novità che il brillante e abilissimo Davout fosse l’unico in grado, forse, di competere con il suo talento militare. E certamente proprio per questo non gli era mai andato a genio: del resto, questo genere di competizione non gli era mai piaciuto troppo. Eppure non aveva cercato di ombreggiare i reali meriti di quella vittoria. «Il corpo d’armata del maresciallo Davout ha fatto miracoli», si leggeva all’indomani della battaglia sul V bollettino della Grande Armée, «non solo è riuscito ad arrestare il grosso dell’esercito nemico […] ma l’ha respinto e sconfitto».
Degli stessi riconoscimenti non era invece meritevole il maresciallo Bernadotte, comandante del I Corpo d’Armata. Dove diavolo era finito mentre Davout fronteggiava con una manciata di uomini i feroci attacchi dei nemici? Eppure gli ordini dell’imperatore erano stati chiari: avrebbe dovuto muoversi con Davout. Bernadotte li aveva ricevuti. Ma li aveva ignorati. Così come aveva ignorato gli insistenti appelli di Davout mentre sul campo di battaglia si consumava una carneficina. Napoleone aveva preteso spiegazioni, ma le stravaganti giustificazioni addotte dal maresciallo erano state più assurde della sua condotta e non avevano placato la sua rabbia né tanto meno quella dei suoi soldati. L’esercito si aspettava che il comandante venisse deferito alla corte marziale e ne reclamava la testa. E quasi certamente l’avrebbe ottenuta, se un tenero ricordo di gioventù non avesse suscitato la clemenza dell’imperatore.
A venticinque anni, il generale Bonaparte in congedo a Marsiglia aveva soggiornato presso la notabile famiglia dei Clary. L’appena diciassettenne Desirée Clary era stata rapita dal fascino del bel militare, così i due si erano fidanzati. Poco dopo Napoleone era partito per la campagna d’Italia, non senza la promessa di prenderla in sposa appena avesse fatto ritorno. Peccato che, a Parigi, si sarebbe perdutamente innamorato della «bella creola» Joséphine de Beauharnais e in men che non si dica sarebbe convolato a nozze con lei. Desirée era rimasta profondamente delusa, ma avrebbe trovato consolazione un paio di anni dopo nel matrimonio con un giovane generale rivoluzionario: Jean-Baptiste Bernadotte. Napoleone aveva sempre avuto un debole per la moglie di Bernadotte. E poi suo fratello Giuseppe ne aveva sposato la sorella, Marie-Julie Clary. All’imperatore non andava di dare un altro dispiacere alla bella Desirée, né di creare scompiglio in famiglia, e così avrebbe risparmiato la vita a quel maresciallo che, in futuro, non avrebbe potuto rivelarsi più irriconoscente.
Quanto a Federico Guglielmo III, sarebbe uscito dalla sconfitta distrutto, psicologicamente e politicamente. D’altronde tra le corti d’Europa non si faceva mistero del fatto che il giovane sovrano di Prussia non amasse la guerra. Eterno indeciso, aveva cercato di mantenere il paese neutrale per quanto più possibile, ma con la prepotente ascesa di Napoleone avevano avuto la meglio le pressioni delle frange interventiste capeggiate dalla regina consorte Luisa. Così, il re era stato trascinato nelle vesti di comandante supremo delle forze armate del regno in una guerra che non avrebbe neanche voluto combattere.
Una politica militare caotica e un coordinamento incerto avevano accentuato la confusione dell’alto comando prussiano, costituito da generali in perenne conflitto tra loro e ancorati a tecniche belliche ormai superate. Di contro, il nemico vantava un sistema di comando centralizzato, che faceva esclusivamente capo alla volontà di un solo uomo e con le idee ben chiare: Napoleone. E poi, ancora una volta, l’imperatore era stato in grado di tenere alto il morale dei soldati, facendo però ben attenzione a frenarne gli eccessi di presunzione. E anche in questo i prussiani avevano peccato. Rivestiti della loro decennale presunta invincibilità, non avevano valutato con attenzione la pericolosità dei francesi. Bonaparte invece aveva optato per la prudenza. E la formazione che aveva scelto per il suo esercito ne era la dimostrazione: il bataillon carré, la grande formazione quadrata che avrebbe permesso ai soldati di affrontare un attacco da qualsiasi direzione di provenienza.
La disfatta dell’esercito creato da Federico Il Grande, la più temuta macchina bellica dell’ultimo mezzo secolo, aveva lasciato incredule le monarchie del continente, oltre che atterrite dalla consapevolezza che, ormai, l’intera Europa a ovest dell’Oder fosse nelle mani dell’imperatore di Francia. Tutta la fiducia riposta nella potenza prussiana si era dissolta, e gli scontri di Jena-Auerstädt non avevano che coronato l’ennesimo esempio di guerra-lampo napoleonica. Dopo la disfatta, rinfrancati dall’arrivo degli aiuti russi, i prussiani avrebbero resistito per altri sei mesi di dura campagna invernale, declinando ogni proposta di trattativa con l’imperatore. Ma alla fine avrebbero dovuto cedere. E, con feroci condizioni, Napoleone avrebbe fatto scontare il fastidio per i ripetuti rifiuti di accordo ricevuti.
Riferimenti bibliografici
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