Coscienza mafiosa e spiritualità cristiana: una contraddizione non sempre ovvia

Coscienza mafiosa e spiritualità cristiana: una contraddizione non sempre ovvia

I mafiosi hanno sempre mostrato una venerazione e un attaccamento alla religione cattolica e ai suoi simboli.1

È curioso constatare che, se non la totalità, quantomeno la componente prevalente delle organizzazioni mafiose si percepisca e presenti come cattolica devota, creda in Dio, si senta parte della comunità cristiana2. Seppur esistano delle eccezioni e una certa variabilità d’intensità del fenomeno, si può sostenere che, in un’appariscente soluzione di continuità decennale, la maggior parte degli affiliati abbiano manifestato e continuino a manifestare un profondo legame con la religione. Esiste un certo interesse sociale alla base dell’ostentazione devozionale di cui consapevolmente le mafie si sono servite e si servono per garantirsi un’ampia base di consenso nella comunità e un bacino di reclutamento di nuovi affiliati, ma il fenomeno non si esaurisce a questo aspetto strumentale. La maggior parte dei mafiosi cattolici ha vissuto e vive il rapporto con Dio anche nei propri ambienti privati o familiari, mostrando costanza non solo nella partecipazione alle celebrazioni pubbliche ma anche nella preghiera individuale e nell’assidua, talvolta ossessiva, consultazione delle Sacre Scritture, che possono arrivare addirittura a scandire i momenti della giornata, un po’ come accade per i consacrati.

Sembra che la religione contrassegni ogni aspetto della vita di buona parte dei membri delle mafie: plasmi il loro linguaggio, arredi i loro ambienti, segni il loro corpo, ma soprattutto qualifichi i momenti decisivi della loro carriera criminale, in particolare i riti di affiliazione e quelli di attribuzione di nuove cariche. Le stesse strutture interne delle organizzazioni sotto certi aspetti ricalcano quelle ecclesiastiche, e questo si riflette sull’impianto terminologico delle gerarchie, ricchissimo di rimandi al sacro. Anche i codici etici e comportamentali condivisi dagli affiliati annoverano precetti di ispirazione cristiana, nella controversa pretesa di inquadramento della propria condotta entro i confini dottrinali ortodossi. Per forza di cose, sono indubbiamente le modalità di manifestazione sociale del culto a essere più tangibili e conosciute: celebrazioni pubbliche, processioni e cortei, feste e ricorrenze dei santi vedono la più energica e plateale presenza dei clan, sia a livello partecipativo che a livello organizzativo.

In parte, l’esteriorizzazione della fede può essere considerata una semplice abitudine culturale tipica del Mezzogiorno, una sorta di risposta quasi inconscia all’universale bisogno di riconoscimento sociale, di accettazione nella comunità. Ma negli affiliati questa tendenza si trasforma spesso in ostentazione, e si potrebbe pensare che la sincera adesione interiore al culto venga volutamente marcata, esasperata, in una logica comunicativa che la trasforma in una sorta di manifesto pubblicitario. Il buon padre di famiglia rispettoso della moglie, il fedele devoto timorato di Dio, il generoso benefattore che organizza le feste religiose e finanzia chiese, ospedali e scuole: così tende a mostrarsi il mafioso, rispecchiando il prototipo del buon cittadino e facendosi apprezzare dalla comunità. Eppure, è bene sottolinearlo, non si sostiene l’esteriorizzazione di una religiosità fasulla, non sentita, di esclusiva apparenza: non si è di fronte a un fenomeno di finzione, ma di semplice accentuazione. Il mafioso non finge di credere in Dio per essere accettato dalla società, semplicemente è consapevole che il suo credere in Dio, che è sincero, gli restituirà consenso quanto più lo metterà in mostra.

Ho avuto l’occasione di confrontarmi sull’argomento con don Angelo Riva, direttore de «Il Settimanale della Diocesi di Como» laureatosi nel 1994 in Teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana e insegnante di Teologia morale presso il seminario di Como, che tra il 1992 e il 1994 affiancò il cappellano del carcere di Rebibbia, don Sandro Spriano, nello svolgimento dell’attività pastorale:

Mi fu affidato un settore, il cosiddetto reparto G8, nel quale c’era una corposa presenza di detenuti affiliati alla ‘ndrangheta o legati alla malavita calabrese, condannati per reati contro la persona e reati estorsivi. Celebravo la Messa e tenevo degli incontri settimanali di catechesi, confronto e discussione. L’elemento molto appariscente era la grande partecipazione. Grande partecipazione numerica: di fatto, la chiesetta del reparto era quasi sempre piena. E grande «partecipazione esterna»: nel clima di silenzio, le risposte alla Messa erano date in maniera quasi scolpita, non dico gridata, però quasi. «Amen!», «E con il tuo Spirito!». Insomma, il contrario di quella che definiremmo una partecipazione sonnacchiosa e distaccata. Oltre alla partecipazione alle celebrazioni, osservavo un forte legame con i segni liturgici, come il segno della croce, e con oggetti sacri, come immaginette o rosari, che i detenuti custodivano nelle loro celle, che presentavano vari simboli religiosi, diversi tra loro.3

Tutti gli studiosi che si sono occupati di mafie si sono interrogati circa la serena conciliazione tra la spiritualità cattolica e l’appartenenza a organizzazioni criminali tra le più feroci al mondo, ed è emerso che non necessariamente – o meglio, molto raramente – nella logica degli affiliati la pratica criminale entra in contraddizione con la fede e il rispetto di Dio e della comunità. Anzi, addirittura è un dato di fatto, confermato ampiamente dalla letteratura sul tema, che le organizzazioni si servano della Bibbia, dei Vangeli e della dottrina cristiana nel suo complesso per giustificare, legittimare moralmente, se non incentivare, la messa in atto di numerosi crimini, e che al loro interno sia d’uso rivolgersi a Dio, alla Madonna o a qualche santo prescelto per invocare la protezione fisica oltre che psicologica, la buona riuscita dell’azione delittuosa e la forza d’animo per portarla a termine, nella certezza che il giudizio divino possa comprenderne il senso profondo e la portata benefattrice.

Sostegno, conforto, supporto psicologico e morale derivanti dalla religione non sono stati solo e sempre – e generalmente quasi mai – il risultato di una semplice strumentalizzazione consapevole o distorsione malevola dei principi cristiani. Ed è personale convinzione che questa sorta di esigenza di legittimazione delle pratiche criminali in un’ottica religiosa non abbia esclusiva caratterizzazione sociale ma risieda anche nell’interiorità degli affiliati: il «mito della mafia buona», la presunta conformazione all’etica cristiana, le interpretazioni delle Scritture giustificative delle azioni delittuose non hanno l’esclusivo proposito di rendere la mafia accettabile dall’esterno (dalla società), ma anche dall’interno (dagli stessi affiliati). Il richiamo e il ricorso alla religione da parte dei mafiosi sono frequenti, persino ossessivi.4

Gran parte dei mafiosi va a Messa, riceve regolarmente l’Eucarestia5 e generalmente pratica tutti i sacramenti6, e il fenomeno è frequente anche nelle giovani generazioni. Indagando un tema che coinvolge l’animo umano e la profondità della coscienza non è certamente possibile azzardare ricostruzioni univoche con la pretesa di restituire una rappresentazione dell’interiorità di tutti i mafiosi cattolici, ma certo è che non è affatto ovvio, come può sembrare, che un mafioso, uno ‘ndranghetista, un camorrista, problematizzi circa la compatibilità delle organizzazioni criminali cui appartiene con la fede religiosa cristiana. E, probabilmente, porre la questione susciterebbe in lui stupore tanto quanto alla maggior parte dei credenti, per ragioni diametralmente contrarie:

Rimasi colpito da un’espressione un po’ idiomatica che mi capitò diverse volte di sentire: «Mi è successo l’omicidio». «Mi è successo», dava l’impressione di una fatalità, come se il fatto criminale avesse una sua logica intrinseca, quasi fatalistica, rispetto alla quale la fede non sembrava avere una capacità di critica, di giudizio. Come se non c’entrasse. Celebrazioni, tradizioni, culto dei santi, processioni, attivavano in loro [nda nei mafiosi] grande disponibilità di partecipazione e vivi ricordi. Ma nel momento in cui si ragionava sulle scelte personali, di coscienza, tendevano a svicolare, e non per omertà o dissimulazione consapevole, ma per una sorta di naturale impermeabilità all’argomento. Era come se la domanda sottesa fosse: «Ma cosa c’entra?». Non realizzavano cosa potesse c’entrare il Vangelo con gli affari, lo spaccio, il traffico d’armi. Per loro, si trattava di due cose diverse. Da un lato c’era la vita, con i suoi criteri. Dall’altro il momento religioso scisso dalla vita, fatto di Messe, preghiere, feste di paese, il carro del patrono o della Madonna, la banda, il ritrovo della gente. Il problema era passare dalla dimensione della «religiosità esterna», di scenario, fatta di elementi ornamentali e simboli di appartenenza e identificazione, a quella della «religiosità di coscienza», profonda, legata alle scelte personali. Nella loro logica, una cosa era il Cristianesimo, fatto di preghiera, momenti cultuali, religiosi, sociali e un’altra era la realtà, fondata su diversi criteri e diverse ispirazioni, che obbediva ad altre logiche, non evangeliche e spesso in contrasto con esse. Portare il detenuto a riflettere su questo era abbastanza difficile. Poi, certo, questo in linea generale: non mancarono rapporti positivi, situazioni in cui si riusciva a parlare, a instaurare una relazione umana e sacerdotale di accompagnamento di buona qualità.7

Footnotes

  1. E. Ciconte, Storia criminale: la resistibile ascesa di mafia, ’ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, p. 202.

  2. Ivi, p. 13.

  3. Conversazione dell’autrice con don Angelo Riva, avvenuta il 9 febbraio 2021.

  4. E. Ciconte, Storia criminale, cit., p. 206.

  5. I. Sales, I preti e i mafiosi: storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2016, p. 41.

  6. Ivi, p. 29.

  7. Conversazione dell’autrice con don Angelo Riva avvenuta il 9 febbraio 2021.